Per vincere, nel calcio moderno, cosa serve? Un allenatore preparato, una squadra ben assemblata, manager competenti e «commercialisti goleador». Parola di Marco Bellinazzo, giornalista de Il Sole 24 Ore. Un appassionato di sport a 360°. Esperto di economia applicata al calcio, cura il blog Calcio&business: un mare magnum di informazioni, dati, approfondimenti, statistiche e previsioni economico-finanziarie.

Incuriositi dal suo approccio analitico, gli abbiamo chiesto lumi sullo stato di salute dello sport più bello del mondo. Lambendo anche altri temi: gli introiti da capogiro della Premier League, l'elezione di Tavecchio, il Napoli di Maradona, la reale utilità del Fair Play Finanziario, il ruolo dei fondi di investimento, la nuova legge sugli stadi, il compito di controllo di Fifa e Uefa. E molto altro ancora.


Antonio Conte è il nuovo ct dell’Italia. Sgombriamo il campo da dubbi e voci infondate: quanto (e a chi) costerà questa operazione?

Le cifre sono quelle emerse dalla stampa. Sappiamo quanto sborserà la Figc. Che ha assicurato che il contratto di Conte - per la Federazione - comporterà un onere economico pari a quanto percepiva Prandelli. Quindi siamo intorno ai 2 mln di euro. Dal punto di vista dello sviluppo commerciale del brand Italia, è stata individuata, insieme alla Puma (main sponsor della Nazionale, fino al 2018), la possibilità di integrare questo emolumento con un ulteriore contratto legato allo sfruttamento dei diritti d’immagine del neo ct. Per la Puma si tratta di un impegno importante, circa 2 mln di euro. Al netto, lo stipendio di Conte varierà perciò tra i 3,5 e i 4 mln, grazie ad una serie di bonus subordinati al raggiungimento di obiettivi specifici, tipo il miglioramento del Ranking Uefa e la qualificazione al prossimo Europeo.

«Se le società fossero normali imprese private, molte di loro avrebbero già portato i libri in tribunale», a ricordarcelo è Tito Boeri. Basta analizzare il calcio italiano: il nodo scorsoio che tende a strangolarlo è rappresentato da un mix di conti perennemente in rosso, dilettantismo manageriale e investimenti sbagliati. In che stato di salute versano i nostri clubs?

Al momento posso dire che si sta compiendo un percorso di risanamento dei conti. Seguendo varie strade. Come? Con il taglio del monte ingaggi e con l’abbassamento della voce ammortamenti, che è il costo dei cartellini, sfruttando la politica dei parametri zero. In sintesi: a diminuire è il costo del lavoro. Da una parte, stiamo assistendo ad un continuo depauperamento del valore tecnico della Serie A. Dall’altra, però, questo processo è risultato indispensabile, poiché scongiura l’ipotesi paventata da Boeri. C’è da sottolineare che quelle società che normalmente producevano deficit annuali pari a 70 o 80 mln di euro - mi riferisco, per fare un esempio, a Milan e Inter -, oggi stanno, seppur faticosamente, portando i lori bilanci verso quota zero. Ma è arrivato il momento di passare alla fase 2: l’aumento dei ricavi. Perché soltanto incrementando i ricavi, dopo aver razionalizzato i costi, si può ricominciare ad arricchire e impreziosire le rose, così da rendere il campionato italiano più appetibile per le tv estere e far ritornare la Serie A a competere con la Bundesliga e le prime della classe (esclusa la Premier, ormai irraggiungibile). Tradotto in altri termini: la Serie A dovrà fatturare almeno 2 mld di euro, quando invece - da anni - ne fattura al massimo 1,5/1,6. Alcune società si stanno già muovendo in questa direzione, e lasciano ben sperare per il futuro. Penso alla Roma. È notizia di queste ore che il Comune di Roma ha sbloccato il progetto dello stadio giallorosso.

Ecco, i ricavi da stadio, altra questione nodale. Non va meglio neppure in questo campo. Ad  incidere negativamente è l’assenza di politiche di ampio respiro. Manca ancora una legge che sburocratizzi la costruzione di impianti sportivi.

Beh, non è proprio così. La legge di stabilità 2014, sebbene fissi paletti non del tutto chiari, prevede una via di semplificazioni e una sburocratizzazione per la costruzione di nuovi impianti. Chiaramente non è una legge perfetta. Perché? Per dirne una, esclude la possibilità di costruire opere residenziali, a compensazione degli investimenti privati. Un po’ come ha fatto l’Arsenal, in Inghilterra, con l’area del vecchio Highbury. Ma è indubbio che questa è una legge che, dopo tanti anni di vuoto normativo, faciliterà la nascita di nuove opere sportive. Vedremo come verrà applicata alla Roma, in quanto farà da modello per altre realtà che mirano alla costruzione, o ristrutturazione, dei loro impianti.

Ordinando le principali leghe europee in base al numero medio degli spettatori, che tipo di classifica si otterrebbe?

A guidare la classifica è la Bundesliga, con una media di oltre 43.173 spettatori a partita. Subito dopo, la Premier League, con 36.589 spettatori. Resta in terza posizione la Liga, nonostante registri un crollo del 6% della media. Sono 26.867 gli spettatori per la massima serie spagnola, che vede così avvicinarsi sensibilmente l’Italia e la Francia. Mentre in Ligue 1 si supera la soglia dei ventimila, arrivando a quota 20.693, l’8% in più rispetto alla passata stagione, la Serie A si mantiene sui 23 mila spettatori a partita (23.365). La media di pubblico della Serie A, nella stagione appena conclusa, è stata pari a 23.282 spettatori a partita, con il 56,6% degli spalti occupati. L’Inter è la squadra con il maggiore seguito, con oltre 46 mila spettatori a partita e il 57% di riempimento di San Siro, davanti a Napoli e Roma (poco oltre i 40 mila, pari al 67 e 54% di occupazione). In questo conteggio influisce il caso Cagliari: i rossoblù, nelle 16 partite giocate in Sardegna, hanno registrato il 96,6% di affluenza, in virtù però di una capienza massima di poco inferiore alle 5 mila unità. A parte gli isolani, l’unica squadra a superare il 90% di presenze è stata la Juventus: la media di presenze allo Juventus Stadium è di 37.300 spettatori a match. Per il resto si va dal 67% del Napoli al 49% del Milan, con due picchi negativi: la Lazio è crollata, con 28.455 spettatori di media a partita, a una percentuale di riempimento del 39%, e il Chievo non raggiunge i 10 mila a partita, fermandosi al 23% di spettatori al Bentegodi. Ricapitolando, vien fuori una classifica del genere: Budesliga, Premier League, Liga, Serie A e Ligue 1.

Stando all’ultimo rapporto di Deloitte, la Premier muove 2,9 mld di euro (+7%), seguito dalla Bundesliga (2 mld, +8%), dalla Liga (1,9 mld, +4%), dalla Serie A (1,7 mld, +6%), e infine dalla Ligue 1 (1,3 mld, +14%). Come vanno letti questi dati?

Va aggiornato il dato della Premier League: viaggia ormai verso i 4 mld di fatturato, visto che da quest’anno è entrato in vigore un nuovo contratto sui diritti tv, con un incremento dei ricavi oltre il 70%. Ne consegue un gap incolmabile tra la Premier e il resto dei campionati. Spicca però l’ennesimo anno in crescita (quasi 2 mld di fatturato) della Germania: dati impressionanti che permettono al massimo campionato tedesco di consolidare ulteriormente la propria posizione alle spalle della Premier League. Una crescita alimentata da un equilibrio di bilancio e una mancanza di debiti che contraddistinguono l’azienda calcistica tedesca, ormai modello virtuoso esportabile in tutto il mondo. Del resto, non è mica frutto del caso, il successo della Germania in Brasile.

Altro tema che sta tenendo banco nei dibattiti tra addetti ai lavori e semplici tifosi: il Fair Play Finanziario (FPF). Specchietto per le allodole o uno strumento di risanamento del sistema calcistico?

Credo sia uno strumento efficace, per quanto migliorabile. Le regole del FPF sono state un compromesso rispetto ad altre soluzioni sul contenimento dei costi, come il salary cap, osteggiate da calciatori e procuratori. Ecco il motivo per cui si è giunti a questa soluzione, che - lentamente - sta dando i suoi frutti: il numero delle squadre in rosso, in Europa, si sta riducendo notevolmente. E le sanzioni decise nella scorsa primavera hanno prodotto i primi effetti. Tant’è vero che le due squadre più colpite, cioè Manchester City e Psg, che fino ad un’estate fa collezionavano figurine siglando contratti multimilionari, nell’ultima campagna acquisti si sono attenute ai limiti imposti dalla Uefa, senza superare il tetto di spesa di 60 mln. Due numeri: il City ha speso 65,50 mln di euro, ma ne ha incassati 33,55 mln; il Psg ha contato una spesa di 49,50 mln e 1,50 mln di entrate. Sotto questo aspetto, il FPF è uno strumento fondamentale.

È vero. Però esiste il rischio che il gap tra i top clubs e le squadre medio-piccole si cristallizzi definitivamente.

Sì, in effetti, c’è questo rischio. Ma il FPF permette anche alle squadre medio-piccole di crescere e, un giorno, di arrivare a competere con le big europee. Evitando che ci sia però una crescita drogata, come è avvenuto con il Psg. Cioè una crescita subordinata al capitale a disposizione di uno sceicco o un magnate russo. Gente che, una volta stancatasi, abbandona il proprio club al suo destino. Mi viene in mente il Monaco, dove il patron Rybolovlev, a causa del divorzio con la moglie che gli costerà quasi 4 mld di euro, si è visto costretto a smobilitare la squadra, cedendo i pezzi più pregiati: James Rodriguez al Real Madrid e Radamel Falcao al Manchester United. In definitiva, il FPF è un ottimo strumento di risanamento del sistema calcio. Da migliorare, soprattutto nelle sue incongruenze.

Un’altra incongruenza del calcio globale risponde ai fondi di investimento. Che fanno il bello e il cattivo tempo, influenzando le carriere dei calciatori e muovendo ingenti somme di denaro (di dubbia provenienza). Mentre Fifa e Uefa dormono sonni tranquilli.

Su questo tema ho una visione pragmatica, non ideologica. Credo che i fondi di investimento non siano né un male, né un bene. D’altronde, intervengono nel sistema calcio, che non è mica fatto da verginelle. È chiaro che, se si fissassero adeguati paletti, regolamentando la proprietà dei calciatori, le modalità di finanziamento delle società e le capacità che questi fondi hanno di influenzare sia i clubs che i loro tesserati, non esisterebbe alcun vulnus. Anzi. Avremmo a che fare con finanziamenti da parte di alcuni fondi attraverso formule finanziarie moderne ed innovative. La finanza non è il male assoluto, dipende da come viene utilizzata. Quando Fifa e Uefa usciranno finalmente dallo stato di torpore, e decideranno di intervenire con regole chiare e ferree, potremo dare una valutazione ancor più precisa sull’apporto al calcio da parte di questi fondi. La Uefa, finora, ha solo dichiarato di volerli vietare e bandire. Ma non l’ha ancora fatto, anche perché ci si rende conto del fatto che, in un mondo globalizzato, è praticamente impossibile cancellare una realtà così forte e già radicata in varie leghe. Se mancano le regole e la trasparenza, è facile che si resti nel far west, e che si assista a scandali più o meno noti che rovinano l’immagine del calcio, con rischi continui legati al riciclaggio, alla speculazione e alla possibilità di combine.

L’elezione di Tavecchio, grazie alla regia di Galliani (leggasi Mediaset) e Lotito, è la riprova che i boss del vapore non hanno alcuna voglia di cambiare. Qual è la sua opinione in merito?

L’elezione di Tavecchio era inevitabile. Per una questione di regole, appunto. La legge Melandri assegna il 51% dei voti in Figc a Lega Pro e Lega Dilettanti, in funzione del loro bacino di utenza. Ecco perché era scritto che andasse a finire così. Al di là delle gaffes censurabili, ho letto il programma dei due candidati, sia di Albertini che di Tavecchio. Entrambi, almeno sulla carta, propongono progetti condivisibili, magari poco coraggiosi, che permetterebbero al calcio italiano di fare perlomeno qualche passo avanti. Staremo a vedere. Non ci resta che giudicare i fatti, da oggi in poi.

Secondo lei, da dove dovrebbe partire il n. 1 della Figc? Mi elenchi i primi cinque obiettivi da raggiungere.

Il primo è già stato raggiunto. Mi riferisco alla nomina di un allenatore in grado di ricreare interesse intorno alla Nazionale. La seconda cosa che Tavecchio dovrebbe, e potrebbe, fare è quella di prendere esempio dalla Germania sulla gestione dei vivai, creando accademie e centri federali, in modo da gettare le basi per un reclutamento virtuoso dei giovani talenti italiani. In terzo luogo, deve avviare politiche di marketing che valorizzino il brand Italia. Altro snodo fondamentale è la modifica di alcune leggi, come la legge 91/1981 (in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti), che va assolutamente aggiornata. Quinto e ultimo step, una decisa sforbiciata al numero delle squadre che partecipano ai campionati professionistici, magari con 18 o 16 in Serie A, 20 in Serie B, 40 in Lega Pro.

Insieme a Gigi Garanzini, acuto conoscitore di cose calcistiche, ha scritto Il Napoli di Maradona. Un libro che ripercorre le tappe di avvicinamento del Napoli capitanato dal Pibe de Oro al suo primo scudetto. Ci riferiamo all’annata 1986/87. Cosa le manca, più di tutto, di quel Napoli e di quel football?

Ciò che manca di più, non solo a me ma al calcio italiano in generale, è la componente territoriale, autoctona, delle squadre. Nelle fila di quel Napoli c’erano tantissimi giocatori campani e, tra questi, tanti cresciuti nel vivaio. Da qui derivava un legame vero tra i giocatori, la squadra, la maglia e i tifosi. Una sinergia maggiore di quanto ce ne sia oggi nel calcio moderno. Senza dimenticare la componente economica: ti potevi permettere di comprare Maradona, mentre gli altri giocatori li crescevi in casa. Nel mondo esistono ancora realtà che seguono questa filosofia. È il caso del Barcellona, che accosta grandi acquisti, spedendo cifre a volte elevatissime, a giovani di valore sfornati dalla Masia. Ecco, se dovessi segnalare ciò che recupererei di quell’epoca, è proprio questo. La capacità di produrre calciatori legati al territorio e investire seriamente, non come si fa oggi - stanziando non più del 2% del fatturato -, nei vivai. Non solo per nostalgia, ma anche per un calcolo di convenienza.