El miedo escénico y otras hierbas è uno zibaldone scritto da Jorge Valdano. Sfogliando le pagine di questo libro, ci si accorge che a prevalere è una narrazione dai tratti esistenziali. E lo si evince, nello specifico, da un passo: «Sappiamo che la società sta diventando grigia e un po’ rozza, stato ideale per ricevere e assorbire i messaggi primari di quegli individui vincenti ma insensibili che, a forza di tenere i piedi piantati per terra, non toccheranno mai il cielo con un dito. Nemmeno vincendo. Quel messaggio che si definisce “pragmatico” è la strada più breve verso l’individualismo, l’assenza di solidarietà, gli ansiolitici. Ma soprattutto è falso. Esistere è assai più importante che vincere una partita di calcio. Quel fondo di fascismo che si annida dietro la “filosofia del risultato” è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti. Mi ripugna un simile messaggio e per contrastarlo mi sforzo di lottare. Anche quando alla mia squadra va tutto male e mi tocca perdere».
Lo sport poggia su un background fatto di storie. E' un caleidoscopio di eventi, innescato da un flusso di continui flashback, cui sono legati vari insegnamenti. Cosa verrebbe raccontato dell'Olimpiade del 1968 a Città del Messico, se non si fosse consumato quel gesto eclatante di Tommie Smith e John Carlos? Solo numeri, cifre e record. I due atleti, invece, ci hanno regalato un messaggio, rappresentato da un pugno chiuso, dal capo chino e dalla nudità dei piedi. Una forma di protesta, impressa nell'immaginario collettivo, il cui significato è stato svelato dagli stessi protagonisti: "Il pugno inguantato di nero raffigurava un simbolo di solidarietà, il capo chino l’offesa subita, l’essere scalzi un emblema di povertà".
Lo sport trova spazio negli angoli della memoria storica. E' qui che riaffiorano le vicissitudini di Jose Angel Iribar. Che si spese con tutto sé stesso per la libertà dei baschi. L'ikurriña, il vessillo dei Paesi Baschi, e l'euskera, la lingua parlata dal suo popolo, furono proibite a lungo dalle leggi franchiste. Era il 5 dicembre 1976. All'Atocha di San Sebastián, l'Atletico Madrid e il Real Sociedad, due acerrime rivali, si contendevano il derby. Potrebbe sembrare strano, ma a suscitare l'interesse dei tifosi non fu il risultato dei novanta minuti, quanto piuttosto il momento - storico - in cui Iribar, sfidando i dogmi del franchismo, spiegò l'ikurriña davanti alla sua gente. Un gesto che spianò la strada all'autodeterminazione del popolo basco.
Ci sono atleti che hanno fatto la rivoluzione. Culturale, sociale, politica. Sócrates, soprannominato il dottore del calcio, ne è l'emblema. Cresciuto con il mito di Che Guevara e Simon Bolivar, il campione verdeoro si era da sempre cibato di calcio, diritti civili e arte. Oltre alla passione per la politica. Rimarranno epiche le sue proteste sia contro le organizzazioni sportive sia nei confronti dei governi locali. Tant'è che lo si ribattezzò il ribelle dei ribelli. Durante la dittatura militare brasiliana, fu il promotore della democrazia corinthiana, che aveva nell'autogestione del popolo il suo principale scopo.
Emil Zatopek, campione olimpico nel fondo e mezzofondo, ha fatto parlare di sé per essere strato tra i primi firmatari del Manifesto delle 2000 parole, redatto da Ludvik Vanulik, e sottoscritto dalle maggiori personalità della società civile dell'epoca. Il 23 agosto 1968, con i carri armati sopraggiunti alle porte di Praga, Zatopek arringò la folla di connanzionali e si mise a capo della rivolta in nome della libertà della Cecoslovacchia. Per quella scelta, la sua carriera andò in frantumi.
E che dire della vicenda di Mahmoud Sarsak, la giovane promessa del calcio palestinese? Fu arrestato con l'accusa di terrorismo e dopo tre anni, per assenza di prove, venne scarcerato. Mahmoud è un paradigma vivente, soprattutto perché non ha fatto notizia. Se il club per il quale giocava fosse stata una squadra quotata, sostenuta da migliaia di tifosi; se Sarsak fosse stato un campione mondiale, se non fosse di origini palestinesi, e se non fosse stato arrestato da Israele, la sua storia avrebbe sicuramente suscitato un'indignazione internazionale. Nonostante ciò, ci ha lasciato in eredità un insegnamento vero. "La vita senza libertà" - sue parole - "non vale la pena di essere vissuta".
Un'altra di queste storie avvincenti è quella di Didier Drogba, che ha agito per far ritornare la pace nella sua terra, la Costa d’Avorio. Nel 2007, quando la guerra civile stava già mietendo migliaia di vite umane, Drogba chiese al Presidente di organizzare una partita della nazionale in uno stadio abbandonato, in modo tale da trasformare l'evento sportivo in una terapia di pace e unità. Là dove avevano fallito i governi e l'Onu, Drogba era riuscito a seminirare il futuro per la sua nazione. E la certezza che esistere è più importante che vincere una partita di calcio.