La cura del public company
Lapresse

Il sistema calcio italiano è difronte ad un bivio: rifondarsi, che fa rima con riformarsi e bonificarsi, o continuare a morire. E, per non perire, il passaggio è obbligato: dare voce e potere decisionale ai tifosi. La missione è fin troppo impellente e senza dubbio impervia. L’obiettivo  è quello di promuovere una forma reale di democrazia che riconosca ruolo e valore del tifoso e dia piena stabilità economica al club. Il che pone le basi per un graduale ridimensionamento dei problemi di cambi di proprietà e dei continui scandali e crack finanziari che hanno da sempre segnato lo sport più popolare del Belpaese. In due parole: azionariato popolare. Anche noto come public company.

Nell’ottica della partecipazione diretta nella gestione di una società di calcio, il tifoso diventa il fulcro del progetto, smette i panni del semplice delegante ed indossa quelli del promotore  di modelli sostenibili di proprietà e gestione. Dalla delega in bianco alla partecipazione diretta: un passo lungo che presuppone un profondo cambiamento culturale, una sorta di metamorfosi o emancipazione intellettuale, quindi sportiva, a cui il tifoso non può minimamente sottrarsi. Tradotto: scegliere se rimanere un pollo d’allevamento, o se avere voce in capitolo nella governance del proprio club d’appartenenza e - perché no - anche all’interno delle stesse istituzioni sportive.

I pionieri dell’azionariato popolare sono stati gli inglesi, con l’Arsenal punto di riferimento. In Gran Bretagna è nata e si è sviluppata una struttura di partecipazione del tifo, nota  come Supporters Trust, che ha funto da pontiere tra soci e club. E che ha coinvolto centinaia di club inglesi, dalla Premier League (Manchester United e Tottenham Hotspur) alle serie inferiori (Swansea City ed Exeter City), fino al calcio dilettantistico con l’Ebbsfleet United Football Club, il cui 75% del club è stato acquistato nel 2007 dal progetto MyFootballClub.

A seguire, la Spagna: i primi esperimenti hanno portato alla nascita del modello alla spagnola, con a capo Barcellona (il più grande esempio di azionariato popolare del mondo, con i suoi 165.000 soci), Athletic Bilbao, Real Madrid, Osasuna ed Espanyol.

In Germania si è sviluppato il modello del 50%+1, favorito dalla normativa vigente, che è stata una vera e propria spinta propulsiva, l’effettivo detonatore, durante la rivoluzione calcistica tedesca, iniziata poco meno di un decennio fa. Tale modello ha segnato le gestioni della maggior parte dei club tedeschi, in cui almeno il 51% della proprietà è nelle mani dei tifosi. Un esempio di questa forma di azionariato è rappresentato dal Bayern Monaco: il 90% del capitale è detenuto dall’FC Bayern Munchen AG, l’azionariato popolare made in baviera, mentre il restante 10% è in mano all’Adidas. Degna di menzione è anche la realtà portoghese, dove Sporting Lisbona e Benfica sono stati, fino ad ora, i più prolifici laboratori d’analisi.

L’Italia, come al solito, resta il fanalino di coda, in perenne ritardo. Sulla scia dei risultati ottenuti in Europa, il primo esempio di azionariato popolare made in Italy, sebbene sia più giusto definirlo un’infelice scimmiottatura, è stato quello rappresentato da MyROMA, ente di diritto giuridico che dal 2010 partecipa al capitale del club capitolino. Da segnalare anche le prime cooperative di tifosi nate, nel 2008, a Modena e Mantova.

L’Italia paga ancora fattori quali la pochezza di etica tra gli operatori del sistema e lo scotto degli scandali a cadenza decennale, oltre a normative ormai inadatte e una classe dirigente non all’altezza. Per non parlare delle infrastrutture antiquate, dei ricavi dalla vendita dei diritti televisivi costantemente in calo e dei conti in profondo rosso. Il calcio italiano non è più appetibile e dubitiamo possa tornare ad esserlo nel breve periodo. L’azionariato popolare diverrebbe così una valida soluzione alla mala gestione dei club. L’etica e la passione debbono guadagnarsi il centro della scena. Solo così, forse, il nostro calcio tornerà ai suoi antichi splendori.

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