In questi giorni migliaia di persone stanno manifestando nelle strade delle principali città turche contro l’intransigenza del governo Erdogan. A tener viva la fiamma della rivolta sono gli oppressi, gli sfruttati, gli studenti, i lavoratori, le minoranze etniche e persino gli ultras. Dalle finestre delle abitazioni fanno capolino le bandiere rosse con una falce di luna e una stella a cinque punte, entrambe bianche. Colori e simboli intrisi di storia e leggende.
Tutto è iniziato dopo la decisione del governo di abbattere centinaia di alberi a Gezi Park, luogo di ritrovo e polmone verde voluto dal presidente Kemal Atatürk, oltre che simbolo del laicismo contrapposto alla politica di Recep Tayyip Erdogan, per far spazio ad un centro commerciale e ad una moschea.
Quello che fin da subito è stato bollato come un transitorio sit-in, si è trasformato invece in un vento di protesta che ha cominciato a spirare sull’intera Turchia. Ad insorgere sono state infatti ben 48 città, inclusa la capitale Ankara. Ma l’intervento delle forze dell’ordine non si è fatto attendere: cariche ripetute, spray urticanti, lancio di gas lacrimogeno e cannoni d’acqua. Amnesty International ha diramato i primi dati, il bollettino medico è stato di 1000 feriti e 3 morti.
Per capire le dimensioni assunte dalla protesta di piazza Taksim bisogna passare dal calcio. In Turchia è accaduto qualcosa di impensabile, dai connotati che fanno gridare al miracolo. I tre gruppi del tifo organizzato più fanatici ed accesi della vecchia Costantinopoli, rispondenti ai nomi di UltrAslan, Vamos Bien e Carsi, si sono gemellati a formare un fronte comune di opposizione al governo. Un evento straordinario. Un fatto simbolico che esprime il sentimiento nuevo di un popolo.
La rivolta ha spinto i tifosi di Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas a scendere in piazza e a prendere le difese dei manifestanti, anteponendo la legittimazione dei diritti del popolo turco al fanatismo imperante tra le varie fazioni. Diversi i colori sociali, ma gli slogan sono stati cantati all'unisono: "Siamo tutti soldati di Ataturk" e "Tayyip dimettiti". Per la prima volta della loro storia hanno siglato una sorta di armistizio calcistico. Si trovano al fianco di chi lotta per i propri diritti, per la propria dignità e per un mondo diverso, possibilmente migliore. Pronti a far valere le loro ragioni contro l’autoritarismo della polizia e l’intolleranza del governo. Consapevoli della repressione e della violenza attuate dallo Stato.
La protesta del Gezi Park e i metodi del governo Erdogan hanno scardinato una regola centenaria. Le tifoserie hanno azzerato le antipatie reciproche per scoprire una vera e propria solidarietà ultras. E così, le immagini che ci giungono da Istanbul mostrano manifestanti con indosso la maglia di una squadra e la sciarpa dell’altra a protezione contro i gas lacrimogeni. Scene che rimandano agli scontri di Port Said, in Egitto, durante quella che è passata alla storia come la rivoluzione del Nilo. Scene impensabili solo fino a pochi giorni fa, seppur figlie di un'unica matrice: la sete di democrazia.
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