Ermal Meta - Non abbiamo armi - La recensione di Vavel Italia
La copertina del disco (fonte: @metaermal)

Al netto del successo sanremese, che su Ermal Meta andassero riposte alte aspettative era cosa già risaputa da tempo, precisamente proprio da quando sul palco dell'Ariston il cantautore italo-albanese si era fatto conoscere al grande pubblico. Il percorso che ha portato l'ex leader dei La fame di Camilla in vetta alle classifiche italiane passa proprio per le tre partecipazioni consecutive a Sanremo, con i conseguenti tre lavori discografici in uscita. Tre dischi in tre anni che rappresentano l'intero percorso solista del cantautore, che se in "Umano" aveva mostrato il suo lato più "ruvido" in un disco dai suoni forti e spigolosi e da un accenno di rabbia nei testi, in "Vietato Morire" aveva mostrato un lato più maturo e riflessivo.

Il percorso artistico di Ermal Meta trova il suo continuo in Non abbiamo armi, trainato dal singolo sanremese e brano di apertura "Non mi avete fatto niente", cantato insieme a Fabrizio Moro e capace di conquistare l'Ariston con una melodia trascinante e un testo dalle tinte forti e significative. Il resto del disco vede le collaborazioni di autori come Roberto Cardelli (co-produttore dell'album), Dario Faini, Matteo Buzzanca e Gianni Pollex. Al primo ascolto del disco salta subito all'occhio (e all'orecchio) la presenza di un clima diverso rispetto a quello dei due dischi precedenti: testi più ricercati, atmosfere molto più riflessive e romantiche (percepibili anche nei brani più movimentati) e strutture melodiche maggiormente complesse. E' il caso della title-track "Non abbiamo armi", perfetto riassunto dei 46 minuti di durata di questo disco, dove a strofe brevi e concise si alterna un doppio ritornello che accompagna e guida una grande prestazione vocale di Ermal.

E' un disco dolce, riflessivo, che vede i suoi momenti più delicati e allo stesso tempo intensi in "Le luci di Roma" e "Quello che ci resta": due ballate dolci, sentite, a tratti sofferte, dove viene fuori tutta la capacità letteraria del cantautore di descrivere sensazioni e situazioni; sicuramente tra i migliori pezzi del disco. Stessa cosa in "9 Primavere", dove sono delle strofe parlate e dalla ritmica ben precisa a descrivere una lunga storia d'amore, intervallate da un ritornello denso di significato e che culmina con un finale intenso e molto ben cantato. Il momento forse di massima riflessione e introspettività sta proprio nel finale del disco, nei 6 minuti di "Mi salvi chi può", sicuramente il brano più "ricercato" dal punto di vista del significato, ben collocato al termine dell'album anche grazie all'ottima coda strumentale.

E' una particolare dolcezza quella che si percepisce in questi 12 brani, malinconica ma allo stesso tempo romantica e positiva, che si pone come filo conduttore dell'intero disco. Un mettersi a nudo che si vede anche nei brani più "spigolosi" e dai suoni diversi, come "Amore alcolico", "Caro Antonello" (curiosa dedica ad Antonello Venditti) e "Molto bene, molto male". Stessa cosa in pezzi come "Il vento della vita", caratterizzata da una linea melodica che ricorda molto le particolari strutture di Samuele Bersani, "Dall'alba al tramonto" e "Io mi innamoro ancora", sicuramente tra i più radiofonici del disco a dispetto di testi comunque tutt'altro che banali. E' un disco dove però la cosa che più sorprende, oltre all'indubbia qualità dei brani, è la prestazione vocale di Ermal Meta, che sembra aver guadagnato ancor più sicurezza e brillantezza vocale, arricchendo le canzoni in maniera significativa. Un album sicuramente meno immediato rispetto ai due precedenti, ma che rappresenta la totale maturità artistica del cantautore, ormai pienamente lanciato nel panorama italiano.

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